Film: il figlio di Saul

In concorso al 68. Festival di Cannes (2015), dove ha attenuto il Gran Premio della Giuria, nonché vincitore del Golden Globe come Miglior film straniero e in corsa per l’Oscar 2016, il film Il figlio di Saul (Saul fia, 2015) è l’opera prima del regista esordiente László Nemes, già assistente del noto regista Béla Tarr. Il giovane autore ungherese, prendendo spunto dalla vasta letteratura sulla Shoah, nello specifico dalle memorie degli ebrei dei Sonderkommando – in Italia nel volume La voce dei sommersi edito da Marsilio –, propone un crudo viaggio nell’inferno di Auschwitz, offrendo una prospettiva inedita sull’orrore.

E’ la storia dell’ebreo Saul Auslander – interpretato dal poeta-scrittore Géza Röhrig –, internato nel campo di concentramento di Auschwitz, il quale nei gruppi Sonderkommando è costretto a occuparsi della tragica fine dei prigionieri. Mentre lavora in uno dei forni crematori, scopre il cadavere di un ragazzo in cui crede di riconoscere il figlio. Saul dunque fa il possibile per salvare quel corpo e offrirgli una corretta sepoltura, con il conforto della preghiera.

«Nemes mette in campo due importanti soluzioni: fa svolgere in un contesto dove la ragione ha abdicato alla follia una storia “impossibile” di religione e di pietà. Rinuncia, al momento di avviare la macchina da presa, ai formati spettacolari per scegliere quello ridotto, quello piccolo. Una soluzione di stile finalizzata a non allagare lo sguardo sull’orrore delle immagini. L’azione si volge quasi tutta all’interno di corridoi, stanzoni, spazi privi di luce dove la mancanza di respiro toglie ogni anelito di vita.  Nel finale arriva la domanda a lungo attesa: Saul preferisce la sepoltura di un ragazzo di fronte all’uccisione dei tanti innocenti? Il quesito apre problemi morali profondi e forse insolubili. Seguire Saul e il suo punto di vista evita insistenze, ripetizioni, distrazioni. La regia pedina ogni angolo del campo, alzando lo sguardo ad altezza di pietà e compassione. Si tratta di un film che ripropone argomenti su cui è sempre opportuno riflettere e che, dal punto di vista pastorale, è da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti» (www.cnvf.it).
Per Il figlio di Saul, Nemes adotta una soluzione narrativa originale e innovativa, lontana dalle numerose declinazioni del dramma della Shoah sul grande schermo: è quasi tutto giocato con una falsa soggettiva, un’inquadratura che riprende il protagonista da vicino, seguendolo di spalle; il film permette in questo modo di cogliere con più incisività lo stato di angoscia e smarrimento dei prigionieri del lager. Il regista non ci mostra apertamente l’orrore, non offre inquadrature esplicite di quei loghi e di quelle nefaste azioni, ma decide di raccontare una sola di quelle esistenze. Tutto ciò non implica una minore efficacia, così come non rende il film di minore importanza rispetto ad altri titoli sullo stesso argomento. Nemes lascia l’orrore fuori dall’inquadratura, non lo chiama mai in campo. Questo, però, non lo rende meno presente, insistente. Ne avvertiamo infatti, al seguito di Saul, tutta la sua efferatezza. «Non volevo – dichiara il regista – trasformare nessuno in un eroe, non volevo neanche assumere il punto di vista dei sopravvissuti né mostrare troppo di quella fabbrica di morte. Volevo solo trovare una prospettiva che potesse essere esemplare, ridotta all’essenziale, per raccontare una vicenda il più possibile semplice e arcaica».
Altro aspetto centrale del film è il richiamo all’opera di misericordia corporale seppellire i morti: nel film Saul, che inizialmente incede in maniera tristemente meccanica nel lager, quando si trova dinanzi al corpo violato del ragazzo, si sente scosso e chiamato a interrompere quel circolo vizioso. Vuole allontanare dalle fiamme quel corpo e affidarlo con la preghiera a una degna sepoltura. Per fare questo, Saul mette a repentaglio la sua vita, andando alla ricerca di un rabbino nel campo di concentramento, affinché ci sia anche la benedizione di un religioso.
Il figlio di Saul è pertanto un’opera di grande pregio, per la capacità di offrire allo spettatore una prospettiva diversa sul dramma della Shoah, regalando una nuova preziosa testimonianza. Per non dimenticare.

 

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